L’assegno di mantenimento nella separazione. I presupposti per il riconoscimento
Obiettivo di questo contributo è quello, piuttosto arduo – invero – di fornire una guida sulla disciplina dell’assegno di mantenimento nella separazione personale dei coniugi che sia al tempo stesso concisa ed esaustiva.
Sul tema dell’assegno di mantenimento si sono scritti fiumi di inchiostro da parte della dottrina e centinaia di pronunce giurisprudenziali hanno contribuito a definirne la disciplina, talvolta non senza contraddizioni.
Noi cercheremo, come detto, di tracciare le coordinate fondamentali per la comprensione dell’istituto in questione, analizzandone la finalità, i presupposti ed i requisiti richiesti per il riconoscimento del relativo diritto, ma anche le ipotesi in cui questo può ridursi sino alla sua totale estinzione.
Ritengo, quindi, che il punto di partenza non possa che essere il dato normativo e, precisamente, l’art. 156 c.c. il quale testualmente dispone: “Il giudice, pronunziando la separazione, stabilisce a vantaggio del coniuge cui non sia addebitabile la separazione il diritto di ricevere dall’altro coniuge quanto è necessario al suo mantenimento, qualora egli non abbia adeguati redditi propri”.
Prosegue il secondo comma dello stesso articolo: “L’entità di tale somministrazione è determinata in relazione alle circostanze e ai redditi dell’obbligato”.
I presupposti per il riconoscimento dell’assegno
Dalla lettura del sopra richiamato articolo 156 c.c. si evidenzia che il primo, indefettibile, presupposto affinché l’assegno di mantenimento venga riconosciuto è che la separazione non sia addebitabile al coniuge che ne faccia richiesta.
L’art. 151, comma 2, c.c., in tal senso, prevede che “Il giudice, pronunziando la separazione, dispone, ove ne ricorrano le circostanze e ne sia richiesto, a quale dei coniugi sia addebitabile la separazione”. Quindi, prima, ovvia, condizione necessaria è che ci sia una richiesta di addebito avanzata da una parte nei confronti dell’altra; in mancanza di tale richiesta, infatti, e pur sussistendo le altre condizioni, il giudice non potrebbe pronunziare l’addebito.
Ma quando può essere pronunziato l’addebito della separazione? Occorre fare un piccolo passo indietro per chiarire che la formulazione della norma anteriore alla riforma del diritto di famiglia del 1975 prevedeva l’addebito della separazione per “colpa” e le relative ipotesi erano tassativamente individuate nelle seguenti: l’adulterio, il volontario abbandono, gli eccessi, le sevizie, le minacce e le ingiurie gravi.
Prima del 1975, quindi, la separazione coniugale era ammessa e prevista solo ed esclusivamente qualora si fondasse su comportamenti considerabili e qualificabili come colposi secondo i tassativi criteri statuiti dall’art. 151 c.c. allora vigente.
La riforma del 1975, ribalta completamente la prospettiva, passando dalla formulazione di ipotesi tassative in cui ammettere la separazione ad una previsione “aperta” e onnicomprensiva; nella sua attuale formulazione, infatti, l’art. 151, comma 1, c.c. dispone: “La separazione può essere chiesta quando si verificano, anche indipendentemente dalla volontà di uno o di entrambi i coniugi, fatti tali da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza o da recare grave pregiudizio alla educazione della prole”.
Come risulta evidente, quindi, si tratta di una innovazione radicale, che lascia ai coniugi la libertà di porre fine alla comunione materiale e spirituale indipendentemente da comportamenti colpevoli, quando la prosecuzione della convivenza coniugale sia divenuta intollerabile.
Chiarita questa fondamentale differenza tra la vecchia e la nuova disciplina, occorre adesso capire quali possono essere, concretamente, i “fatti tali da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza”. Possiamo dire che certamente rientrano in questa previsione tutti quei comportamenti che costituiscono violazione dei doveri nascenti dal matrimonio, disciplinati dall’art. 143 c.c., e quindi l’obbligo reciproco di fedeltà, di assistenza morale e materiale, di collaborazione, di coabitazione e di contribuzione ai bisogni della famiglia.
Da quanto fin qui esposto, quindi, si evince che il coniuge cui la separazione venga addebitata non ha il diritto di percepire dall’altro l’assegno di mantenimento, anche qualora non disponga di redditi propri adeguati. E, naturalmente, il coniuge economicamente più forte, cui non sia addebitabile la separazione, avrà tutto l’interesse a far dichiarare l’addebito della separazione nei confronti dell’altro coniuge, al fine di sottrarsi legittimamente alla richiesta di mantenimento a suo carico.
Ma attenzione. Ai fini della declaratoria di addebito nei confronti del coniuge non è sufficiente che questi sia venuto meno ad uno o più degli obblighi nascenti dal matrimonio, la cui violazione, pertanto, non determina automaticamente la pronuncia di addebito a carico del coniuge che l’abbia posta in essere. Nel corso degli anni, infatti, sia in dottrina che in giurisprudenza si è consolidato un orientamento, ormai granitico, secondo cui, ai fini della pronuncia di addebito, è altresì necessario che il comportamento contrario ai doveri coniugali sia stato causa del fallimento dell’unione matrimoniale, determinando esso stesso l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza.
In altre parole, l’addebito della separazione potrà essere dichiarato solo ed esclusivamente nella ricorrenza necessaria e dimostrata di due presupposti: la violazione di uno o più doveri coniugali ed il nesso di causalità tra tale o tali violazioni ed il fallimento del matrimonio. Se, quindi, l’eventuale comportamento del coniuge contrario ai doveri coniugali sia intervenuto quando già la frattura della coppia si sia consumata, senza che, pertanto, possa considerarsene causa determinante, l’altro coniuge non potrà chiedere la declaratoria di addebito a suo carico.
“Grava sulla parte che richieda l’addebito della separazione all’altro coniuge l’onere di provare la relativa condotta e la sua efficacia causale nel rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza, mentre è onere di chi eccepisce l’inefficacia dei fatti esposti a fondamento della domanda, provare le circostanze su cui l’eccezione si fonda, vale a dire l’anteriorità della crisi matrimoniale” (Cass. civ., sez. VI, 19 febbraio 2018, n. 3923).
È ben possibile, poi, che entrambi i coniugi facciano richiesta di addebito l’uno nei confronti dell’altro. In siffatta ipotesi, qualora il giudice riscontri comportamenti contrari ai doveri coniugali a carico di entrambi, nessuno di essi avrà diritto a percepire l’assegno di mantenimento, restando fermo solo il diritto alle prestazioni alimentari, anche a prescindere dalla diversa incidenza del comportamento colpevole di uno rispetto a quello dell’altro.
La mancanza di redditi propri adeguati
Il secondo presupposto che l’art. 156, comma 1, c.c. richiede per poter riconoscere l’assegno di mantenimento al coniuge richiedente è la mancanza di adeguati redditi propri da parte di quest’ultimo.
Come si può notare, la disposizione normativa è formulata in termini assolutamente generici ed indeterminati, e ciò obbliga ad individuare un parametro di riferimento alla stregua del quale valutare l’adeguatezza del reddito del richiedente.
Sotto questo profilo, sia la dottrina sia, soprattutto, la giurisprudenza hanno individuato tale parametro nel mantenimento del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, che richiede di accertare se i redditi personali di cui sia titolare il coniuge richiedente l’assegno possano garantirgli di continuare a godere, anche durante la separazione, del tenore di vita di cui aveva beneficiato durante la convivenza coniugale.
Premesso che, ai fini del concetto di “inadeguatezza” del reddito, va escluso che si debba pretendere che il coniuge richiedente l’assegno versi in stato di bisogno, il giudice dovrà, pertanto, procedere ad una comparazione globale della capacità reddituale e patrimoniale di entrambi i coniugi.
Il primo elemento che normalmente viene preso in considerazione è quello della capacità di lavoro del coniuge richiedente, che assume notevole rilievo soprattutto in quelle ipotesi in cui i coniugi, per scelta condivisa, avessero stabilito in costanza di matrimonio che uno solo di essi avesse lavorato. In una situazione di questo tipo, dottrina e giurisprudenza sono solitamente concordi nell’escludere che il coniuge economicamente più abbiente possa pretendere che l’altro debba essere obbligato a lavorare o ritenuto, comunque, idoneo all’espletamento di attività lavorativa.
Tuttavia, se il coniuge richiedente è ancora giovane ed ha una certa formazione culturale e/o professionale, allora la prospettiva muta radicalmente, non potendosi negare la sussistenza di una capacità lavorativa che, parzialmente o integralmente, gli possa consentire di mantenersi.
Si ritiene, comunemente, che l’assegnazione della casa coniugale incida profondamente nella determinazione e quantificazione dell’assegno di mantenimento. In realtà, come affermato da consolidata giurisprudenza, l’assegnazione della casa coniugale non può essere presa in considerazione in virtù del fatto che detta assegnazione risponde unicamente all’esigenza di tutela della prole minorenne e non ha alcuna implicazione di natura economica in favore del genitore assegnatario.
Esaminiamo, adesso, l’ipotesi di un’eventuale convivenza more uxorio intrapresa dal coniuge richiedente l’assegno con un altro partner, prima dell’adozione dei provvedimenti presidenziali riguardanti l’assegno. In linea generale, può dirsi che la nuova convivenza ha un’incidenza sulla situazione reddituale del coniuge aspirante beneficiario dell’assegno ove sia connotata da stabilità e solidità e non sia occasionale. È chiaro, infatti, che la coabitazione determina necessariamente degli innegabili effetti economici positivi sotto forma di risparmi di spesa nello svolgimento e nella gestione della vita quotidiana. La giurisprudenza non ha mancato di sottolineare quanto sopra detto affermando: “Vale anche in caso di separazione il principio secondo cui bisogna tener conto del caso in cui il coniuge che intenda ricevere l’assegno separativo conviva con un nuovo compagno condividendo stabilmente con lui la vita e le spese di ménage familiare: ebbene, in primo luogo, la stabile convivenza more uxorio consente presumibilmente, sul pano delle economie di scala che una convivenza implica, un miglioramento dello standard di vita; inoltre la nuova famiglia di fatto rescinde ogni connessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase della convivenza matrimoniale” (Trib. Roma, sez. I, 6 giugno 2017, n. 11463).
I redditi del coniuge richiedente l’assegno dovranno essere valutati in ogni loro singola componente.
Occorrerà, quindi, considerare innanzitutto il reddito da lavoro autonomo o dipendente che il coniuge eventualmente svolga e compararne l’incidenza con il tenore di vita goduto durante il matrimonio. Sarà inoltre necessario considerare se tale coniuge abbia la proprietà di beni immobili e, in caso affermativo, valutare ulteriormente la capacità potenziale dei medesimi di costituire fonte di reddito in quanto, magari, oggetto di contratti di locazione, nonché il valore di realizzo degli stessi nell’ipotesi di alienazione.
Altri elementi meritevoli di valutazione sono, inoltre, i depositi di denaro e titoli, nonché l’eventuale titolarità di crediti certi, liquidi ed esigibili.
Esaurita l’analisi dei presupposti necessari per il riconoscimento dell’assegno di mantenimento, concludiamo il presente contributo, rinviando, per ovvie ragioni di sintesi, al successivo articolo per la disamina dell’entità e delle modalità di corresponsione dello stesso.
Avv. Paolo Messineo