L’impossibilità sopravvenuta della prestazione al tempo del “Coronavirus”

In questi giorni di emergenza sanitaria dovuta all’epidemia da “Coronovirus” Covid-19, oltre alla evidente preoccupazione per la propria salute, molti devono fare i conti anche con i problemi di carattere economico-patrimoniale legati alle inevitabili ripercussioni che l’emergenza sanitaria porta con sé.

Alla luce dei recentissimi provvedimenti governativi, infatti, tantissimi titolari di attività commerciali (per fare un esempio, palestre e centri estetici) sono stati costretti a sospenderne l’esercizio per evitare il rischio di ampliare la diffusione del contagio.

Nella maggior parte dei casi, i titolari di tali attività conducono in locazione i locali ove esse si svolgono; è chiaro che la chiusura, sia pur temporanea, provoca un danno economico molto rilevante sotto il profilo del mancato guadagno, cui va ad aggiungersi l’onere del canone di locazione dovuto.

Ci si chiede: chi ha assunto contrattualmente un’obbligazione di pagamento, come – appunto – quella derivante da un contratto di locazione, deve ritenersi sempre vincolato all’adempimento anche in presenza di una situazione straordinaria che altera il fisiologico equilibrio delle prestazioni contrattuali?

Per rispondere alla domanda dobbiamo richiamare le norme ipoteticamente applicabili alla fattispecie in questione.

Responsabilità del debitore.

Ai sensi dell’art. 1218 c.c. “Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità derivante da causa a lui non imputabile”.

Il debitore, quindi, è chiamato a prestare lo sforzo necessario ed adeguato, in relazione al tipo di obbligazione assunta, per soddisfare l’interesse del creditore, a nulla rilevando la semplice difficoltà soggettiva nell’esecuzione della prestazione richiesta.

Il principio di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto – espressione del dovere di solidarietà fondato sull’art. 2 della Costituzione – impone a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio di “agire in modo da preservare gli interessi dell’altra” e costituisce un dovere giuridico autonomo a carico delle parti contrattuali.

Pertanto, per potersi liberare dalla responsabilità per l’inadempimento delle obbligazioni assunte, il debitore deve provare che tale inadempimento è stato determinato da una causa a sé non imputabile, la quale è costituita non già da ogni fattore a lui estraneo che lo abbia posto nell’impossibilità di adempiere in modo esatto e tempestivo, bensì solamente da quei fattori che “da un canto, non siano riconducibili a difetto della diligenza che il debitore è tenuto ad osservare per porsi nelle condizioni di adempiere e, d’altro canto, siano tali che alle relative conseguenze il debitore non possa con eguale diligenza porre riparo”.

L’impossibilità sopravvenuta della prestazione per causa non imputabile al debitore.

Come detto, quindi, il debitore si libera dalla propria obbligazione quando sopravviene una oggettiva impossibilità ad adempiere, che non sia stata determinata da una causa a lui imputabile. L’art. 1256 c.c. al primo comma dispone: “L’obbligazione si estingue quando, per una causa non imputabile al debitore, la prestazione diventa impossibile”.

Se, poi, l’impossibilità è solo temporanea, il debitore, nelle more della stessa, non è responsabile del ritardo nell’adempimento.

Per potersi avere la liberazione del debitore dalla responsabilità per l’inadempimento, in virtù della sopravvenuta impossibilità della prestazione occorre, dunque, la contemporanea presenza di due elementi: quello oggettivo, della impossibilità di eseguire la prestazione e quello soggettivo, relativo all’assenza di colpa da parte del debitore riguardo alla determinazione dell’evento che ha reso impossibile l’esecuzione della prestazione.

Per quello che a noi interessa nel caso specifico, tra le ipotesi di impossibilità sopravvenuta della prestazione rientrano tutte quelle che possono essere ricondotte al c.d “factum principis”.

Con questa espressione si suole fare riferimento agli ordini o ai divieti dati o imposti dall’autorità amministrativa che si concretizzano in provvedimenti legislativi o amministrativi, dettati da interessi generali, che rendano impossibile la prestazione, indipendentemente dal comportamento dell’obbligato. In sintesi, trattasi di circostanze che fungono da esimenti della responsabilità del debitore a prescindere dalle previsioni contrattuali in essere.

Si badi, a tal proposito, che – secondo la migliore giurisprudenza – l’impossibilità nell’adempimento contrattuale non può essere invocata qualora il factum principis sia “ragionevolmente e facilmente prevedibile, secondo la comune diligenza, all’atto dell’assunzione dell’obbligazione” ovvero “rispetto al quale non abbia sperimentato tutte le possibilità che gli si offrivano per vincere o rimuovere la resistenza della pubblica amministrazione” (Cass. Civ., Sez. III, n. 14915 del 08.06.2018).

Nell’ipotesi, invece, di impossibilità temporanea, l’art. 1256 c.c. si limita ad escludere, finché detta impossibilità perdura, la responsabilità del debitore per il ritardo nell’adempimento. Pertanto, in via generale, il debitore, cessata la suddetta impossibilità, deve sempre eseguire la prestazione, indipendentemente da un suo diverso interesse economico che può, eventualmente, far valere sotto il profilo dell’eccessiva onerosità sopravvenuta.

L’eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione.

L’impossibilità sopravvenuta della prestazione, sopra, illustrata, è un’ipotesi che va tenuta concettualmente ben distinta dalla diversa ipotesi di eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione che, in ipotesi, potrebbe essere invocata dal debitore chiamato ad onorare un’obbligazione contrattuale.

Ai sensi dell’art. 1467, comma 1, c.c., “Nei contratti ad esecuzione continuata o periodica ovvero ad esecuzione differita, se la prestazione di una delle parti è divenuta eccessivamente onerosa per il verificarsi di avvenimenti straordinari ed imprevedibili, la parte che deve tale prestazione può domandare la risoluzione del contratto”.

Quindi, mentre nell’ipotesi prevista dall’art. 1256 c.c. il debitore si libera della propria obbligazione perché questa è diventata oggettivamente impossibile per il verificarsi di un evento a lui non imputabile, nell’ipotesi di cui all’art. 1467 c.c. la prestazione è ancora oggettivamente possibile ma, a causa del verificarsi di un evento imprevedibile, l’eseguirla richiederebbe un sacrificio economico da parte del debitore eccessivo e superiore a quello che può essergli richiesto.

Anche in questo caso, due sono i requisiti richiesti per potersi avere la risoluzione del contratto: I) un intervenuto squilibrio tra le prestazioni, non previsto al momento della conclusione del contratto e II) la riconducibilità della eccessiva onerosità ad “eventi straordinari ed imprevedibili”, che non rientrano nell’ambito della normale alea contrattuale. In particolare, il carattere della “straordinarietà” deve essere valutato in modo oggettivo, dovendosi qualificare in base alla frequenza dell’evento, alle dimensioni, all’intensità ecc.; l’“imprevedibilità” ha natura, invece, soggettiva, “facendo riferimento alla fenomenologia della conoscenza”.

Per configurare l’eccessiva onerosità sopravvenuta, dunque, è necessario che gli avvenimenti straordinari ed imprevedibili[10] determinino un aggravio patrimoniale che alteri, sostanzialmente, l’originario rapporto di equivalenza, incidendo sul valore di una prestazione rispetto all’altra, ovvero facendo diminuire o cessare l’utilità della controprestazione.

Va da sé, dunque, che la domanda di risoluzione di un contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione deve essere corredata dalla rigorosa prova del fatto la cui sopravvenienza abbia “determinato una sostanziale alterazione delle condizioni del negozio originariamente convenuto tra le parti e della riconducibilità di tale alterazione a circostanze assolutamente imprevedibili” (Trib. Milano, Sez. Spec. Impr., n. 8878 del 03.07.2014).

Alla luce del complesso quadro fattuale, non è semplice stabilire se il Coronavirus – o le misure adottate dalle autorità – possa costituire valida causa di impossibilità o di sopravvenuta onerosità delle prestazioni contrattuali assunte dalle imprese.

Gli effetti giuridici del COVID-19 sui negozi stipulati dalle ditte nazionali, in sintesi, dovranno essere scrupolosamente valutati ed esaminati caso per caso, tenendo conto di una pluralità di fattori quali, a titolo meramente esemplificativo, l’applicabilità della legge italiana alla fattispecie contrattuale, i fatti portati a sostegno del ritardo e/o dell’inadempimento contrattuale, l’incidenza specifica degli stessi sulla prestazione, l’assenza di soluzioni alternative per l’adempimento, la portata del testo contrattuale.

Avv. Paolo Messineo

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